Lidia Decandia | Facoltà di Architettura, Università di Sassari
DIMORARE NEL MUTAMENTO
I LUOGHI DEL SUD TRA IBRIDAZIONI E CONFLITTI

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Vorrei iniziare a parlarvi  di luoghi, narrandovi due storie che ho tratto dalla mitologia.
Vorrei farlo anche in omaggio a questa meravigliosa terra del Sud, che è appunto una terra ricca di miti e di racconti.
Vorrei cominciare a parlare suggerendovi, attraverso la voce e i materiali visivi, delle immagini sensibili ed evocative che non hanno alcuna pretesa di argomentare in maniera logica quello che vi dirò. A queste immagini affido piuttosto il compito di mettere in moto la vostra creatività e immaginazione perché possiate spingervi a costruire nella vostra mente libere associazioni capaci di connettere in maniera inedita sensazioni emozioni e concetti.
(L.D.)

a seguire intervento teatrale di
Michele Santeramo | Autore
LA SCRITTURA DI CYRANO DE BERGERAC

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Ibridazioni e contaminazioni
“...Secondo la leggenda Scilla era una bellissima ninfa e di lei si era profondamente innamorato il dio marino Glauco che perciò respinse l'amore di Circe. La maga, offesa e indispettita, decise di vendicarsi mediante le sue magie: preparò uno strano succo a base di erbe misteriose, si recò presso la sorgente dove Scilla era solita bagnarsi e vi versò la terribile pozione.
Non appena Scilla si bagnò, il suo corpo subì un'orrenda trasformazione: mentre la parte superiore rimase immutata, dalla parte inferiore comparvero sei feroci cani, ciascuno con una orrenda bocca fornita di tre file di denti appuntiti, che latravano in modo impressionante. Essi erano dotati di lunghissimi colli a forma di serpenti i quali afferravano gli esseri viventi a cui potevano arrivare e li divorava. Diventata così mostruosa, Scilla andò a nascondersi presso lo stretto di Messina in un antro là dove la costa calabra si protende verso la Sicilia. Da lì seminava strage e terrore contro i naviganti che impudentemente le passavano vicino...”
                                    
“....alla base di questa c'era una caverna molto vasta, coperta di edera e convolvolo, nella quale il mito vuole che sia nata la regina Lamia. Fu donna di eccezionale bellezza: ma poiché aveva indole selvaggia, dicono che il suo volto col tempo prese un aspetto ferino. La morte coglieva tutti i figli che nascevano, perciò, mal tollerando la sua sciagura, invidiosa per la felicità delle altre madri, ordinava che i neonati fossero strappati dalle loro braccia e immediatamente trucidati.
Se però si ubriacava, dava a tutti licenza di fare ciò che volessero, come non visti. E poiché non si immischiava in ciò che accadeva in quei momenti, gli abitanti della regione credevano che non vedesse: e da ciò alcuni favoleggiarono che riponesse gli occhi in un cestino: l'idea della totale inavvertenza che si raggiunge nel vino era così trasferita nella misura suddetta, come se fosse questa a toglierle la vista”.                                                          
Diodoro

Perchè iniziare con queste due storie per parlare di Luoghi?
Come vedrete credo che ci siano delle assonanze  importanti tra le immagini evocate dal mito e la concretezza della realtà del presente.
Tutta la mitologia del Sud è popolata di ibridi, creature mostruose, leggendarie, dai contorni indefinibili, figure del caotico, del perturbante, difficili da racchiudere in una immagine univoca.
In esse si mescolano umano e non umano, maschile e femminile, fattezze di rara bellezza e di terrificante bruttezza. Il loro essere mutevole e cangiante racchiude una identità in perenne mutazione.
Sono proprio queste figure dell'immaginario che, forse meglio di tanti discorsi, possono esprimere i modi d’essere dei luoghi del Sud contemporaneo.
E' molto difficile, infatti, riuscire a dire ciò che i Luoghi di queste terre oggi mostrano e raccontano.
E' difficile parlare di Luoghi. Così come è difficile parlare di Non-Luoghi.
Così come nei mostri prodotti dall’immaginario mitico anche nei territori del Sud si mescolano, infatti continuamente, territori di sublime bellezza e territori lacerati dalla contraddizione e dallo scarto. Scampoli di paesaggi di un passato che non passa, luoghi di straordinaria vitalità e periferie senza città che evocano immagini di un spazio senza tempo che viene e forse sarà. E’ difficile riuscire a trovare un concetto che possa in qualche modo esaurire in una cifra unificante la concretezza di una realtà così ibrida e diversificata.
Queste forme di mescolanza e di ibridazione non si riferiscono solo alle fattezze fisiche dei luoghi ma appartengono e connotano la stessa storia degli uomini che vivono e abitano il territorio, caratterizzando le stesse economie, le forme della vita culturale, sociale, politica e istituzionale.
Mentre in alcune aree sembrano permanere forme di economie da sottosviluppo, in questi stessi luoghi emergono contemporaneamente: fabbriche all'avanguardia; centri di ricerca che hanno continui rapporti col mondo; imprenditori, creativi e tecnologicamente avanzati di consolidata fama; giovani che inventano e sperimentano nuove forme di assistenza e di cooperazione, di produzione, di musica e cultura.
Mentre i dati e le cifre sembrano talvolta evocare in maniera sconfortante la pesante stagnazione di alcune aree, contemporaneamente altre mostrano caratteri di un nuovo dinamismo, così come in altri piccoli centri emergono interessanti microsistemi produttivi dai tratti postmoderni
Allo stesso modo nelle istituzioni coesistono storie molecolari di uomini che lavorano, che si battono per sciogliersi dai lacci delle clientele, vite di donne che credono nella possibilità di progettare e costruire autonomamente il proprio futuro, insieme a mentalità mafiose che talvolta pervadono abitudini, mentalità e comportamenti e che tuttavia non riescono mai ad annientare, con il loro nocciolo tragico, eventi e momenti di estrema creatività e di innovazione.
Queste storie con il loro intrecciarsi agli ambienti in cui esse stesse si riproducono plasmano, trasformano, reinterpretano, producono incessantemente territori e luoghi nuovi, mescolando in maniera inaudità elementi arcaici tratti da un passato che non passa ed eventi ed oggetti di estrema modernità.
Proprio per l’incrociarsi di queste temporalità è insufficiente riuscire ad esprimere il farsi di questo territorio nell’oggi utilizzando la nozione stessa di contemporaneità; mi sembra infatti che questa parola schiacci il tempo in una dimensione di piattezza e di simultaneità, che non riesce a dar conto della complessità del presente.
Forse è più utile, più che tentare di trovare una parola più appropriata, suggerire, una immagine che riesca a dar conto di questa situazione di estrema complessità. Vorrei allora parlare di questo territorio come se esso fosse una superficie tattile, densa e complessa, variegata e rugosa, in cui si increspano pieghe, si aprono crepe, tagli, strappi e lacerazioni. Una superficie non liscia, ma piuttosto stratificata, sfibrata, che appare determinata dal continuo mescolarsi di piste anacroniche che si confondono; una sorta di cielo notturno in cui alcune stelle che brillano vengono da un passato molto lontano, mentre altre emergono da molto più vicino.
 

Immergersi nella carne del territorio per fare esperienza del mutamento
Questa coesistenza spaziale e temporale, che deve essere accettata in questa sua densità spessa e stratificata, non può dunque essere ridotta ad una immagine che può essere conosciuta con distacco attraverso la contemplazione e lo sguardo. La sua densa e variegata densità, popolata di molteplicità, non può compresa da lontano sovrapponendovi visioni “ideolocizzanti” dai confini netti che costruiscono stereotipi da sostituire ad altri stereotipi, ma ci chiede di essere piuttosto conosciuta attraverso una immersione profonda nel corpo denso e ruvido che la costituisce.
Questa superficie rugosa e variegata non può essere compresa restando su quelle torri trasparenti, da cui abbiamo creduto di poter conoscere il mondo, ma può essere colta solo se riusciremo ad immergerci nel corpo vivo della sua carne. Carne che dobbiamo imparare a ricominciare a “sentire” in maniera quasi tattile, calandoci nella concretezza della sua frammentazione interna di questo territorio, considerando ogni situazione caso per caso, andando più a fondo per vedere, di volta in volta, cosa succede negli intrecci e nelle complessità del reale.

Questa molteplicità vivente, che popola il territorio e i luoghi, e che mostra una forte irriducibilità a qualsiasi ansia di armonia e pacificazione continuando ad offrire spazi di libertà, linee di fuga al nostro pensiero e alla nostra immaginazione non ci chiede infatti di essere normalizzata, annientata, regolarizzata, resa coerente, unificabile e prevedibile, in nome di una ragione asettica e di un disegno totalizzante imposto dall'esterno, ma piuttosto chiede di essere compresa. In questa molteplicità risiede infatti l’ anima tragica di questo territorio che, proprio per questo suo essere imprendibile in una sola immagine, ci mostra di essere forse sulla soglia di una figura nuova, di una configurazione ancora invisibile che esso dovrà darsi, senza farsela imporre dalla legge di un altro.

Proprio per  questo suo essere irriducibile a qualsiasi categoria interpretativa il sud ci offre un antidoto al pensiero della modernità; ci obbliga ad uscire dal monismo della nostra coscienza dominativa, a rompere quelle astratte concezioni su come esso dovrebbe essere; ci invita a fare esperienza diretta, quasi carnale di esso, ad imparare a non espellere, ma ad accettare la vitalità del disordine che si insinua nel vecchio ordine, producendo disarmonia, differenze, scomode tensioni; ci spinge a non ridurre all'ordine l'instabile irriducibilità dei contrasti, a riconciliarci con la non pacificità e soprattutto a trasformare in bellezza il dramma della contraddizione.

Come Lamia e Scilla questa terra - situata oggi in un luogo di passaggio pericoloso in cui si avventurano solo i naviganti e gli esploratori attratti dal nuovo - sembra “latrare orrendamente”, o come le Sirene sprigionare un bellissimo canto, ma è proprio quel canto e quell'urlo che bisogna ascoltare. Per questo occorre privarsi delle rituali consolazioni che vorrebbero riesumare il mito del passato e vivere sino in fondo, per comprenderla, questa situazione di estremo mutamento; bisogna una volta per tutte smettere di “deporre gli occhi nel cestino per non vedere e dimenticare così il dolore della separazione e della perdita” lasciandosi andare all'ubriachezza e alla noia e permettendo ancora una volta che altri, non visti, possano compiere qualsiasi sconcezza.

Occorre che si attraversino sino in fondo i terreni dello smarrimento e della follia, che si vada oltre l'ubriachezza e la noia per ascoltare le istanze disgregate che sono alla radice della separazione originaria; che si ascolti e si dia voce, che si colga e si racconti la natura stessa di questo dolore, cominciando a farsi carico del progetto delle proprie inquietudini.
Non è possibile trovare facili scorciatoie, immediate e semplici vie d’uscita, e rispondere al senso di straniamento solo riscoprendo arcaiche tradizioni, ricostruendo ipotetiche identità sopravvissute al contatto con i tempi. Non è rimpiangendo antichi campanili che riusciamo a far tacere lo sgomento che ci coglie quando guardiamo attoniti i paesaggi e i luoghi del sud contemporaneo. Così come non è neppure azzerando il peso ingombrante di un passato che incombe inventando utopie consolatorie, fantasticando “folli voli”, che è possibile trovare vie di uscita al sentimento dell'angoscia, della separazione e della perdita.

Entrambi questi atteggiamenti, apparentemente lontani eppure profondamente vicini, cercano infatti di dare risposta a questo sconsolante senso di spaesamento con un desiderio di fuga dal presente che si esprime in un bisogno di ritrovare rifugio o in un altrove mitico o in un orizzonte immaginario.  
E tuttavia sappiamo che non è negando, ma accettando di passare attraverso questa fase di smarrimento, assumendo ed interrogando, in tutta la sua radicalità, la tragicità dei dissidi e degli antagonismi che forse diventa possibile andare oltre il velo della quotidianità per riaprire i possibili, scoprire percorsi altri, vivere storie diverse da quelle in cui credevamo di essere impigliati; rompere gli stereotipi, riconsiderare con altri occhi l’esistente, trasformare  l’irriducibilità dei contrasti, delle ambiguità in possibili germi di cambiamento, di trasformazione e di vitalità.

E' forse solo da questo sentire dimenticato, rinnegato capace di andare oltre la parvente rassicurazione delle belle immagini, che può emergere una nuova tensione creativa, che il nuovo può cominciare a prender forma, rivelando la sua ultima arma: la sorpresa.
Come la stessa cultura profonda del Sud ci insegna, infatti, non è mai riducendo all'ordine l'instabile irriducibilità dei contrasti, ma è riconciliandoci con la non pacificità, che possiamo trasformare in bellezza il dramma della contraddizione. Come ben sapevano gli uomini antichi di queste terre occorre non aver paura dei conflitti ma imparare a rievocarli, prestare figura all'informe, colore all'incolore, a trasformare il silenzio minaccioso in ritmo e melodia, il dolore in urlo, la nostalgia in canzone

La cura della memoria e il lavoro del lutto
In questo percorso di “scoperta del nuovo” che non può essere dimenticanza di sé, ma passaggio di ridescrizione creativa, forse può essere la cura di se che è prima di tutto cura della memoria, lavoro del lutto che non è riesumazione, ma rapporto sofferto con il proprio passato, che può giungerci in soccorso. Solo a partire da questo lavoro difficile sarà possibile per questi luoghi – smettere di gemere e di nascondere a se stessi il proprio vero stato, ma prendendo sul serio le ferite che incrinano il presente – prendersi cura di se e ripensare il proprio essere nella storia.
Un'operazione di cura capace si innescare un'operazione di progetto del proprio futuro può nascere solo dalla “rammemorazione” della storia che ci ha fatto essere quello che siamo.

In questo senso la memoria non è infatti qualcosa di separato dal presente.
La superficie del presente contiene, infatti, qualcosa che va molto oltre la sua apparenza.
Non credo che la realtà sia solo ciò che si vede.
La realtà si imbeve del suo passato, il presente contiene dentro di sé un passato che non smette mai di passare. Oltre la superficie delle immagini e delle forme esiste un serbatoio di ombre, di pieghe e di stralci, di durate incrociate che coesistono con il presente rendendolo possibile.
Ecco io credo che questo sia questo mondo latente della memoria che debba essere riscoperto e ripercorso.
E’ forse proprio nel mondo dei morti e dei non-nati, come direbbe Paul Klee, che possono esistere virtualità latenti a cui è possibile ancora  fare appello. Quel mondo che, forse, ancora non abbiamo conosciuto.
In questo mondo latente che conosce traumi  e lacerazioni, si nascondono forse anche dei fantasmi con cui dobbiamo fare i conti.
La storia di queste terre è infatti una storia ingombrante e difficile, che ha lasciato ferite lontane e irrecuperabili, un nucleo tragico che è impossibile cancellare.
Tuttavia allo stesso tempo essa ha sedimentato particolari modi di essere nel mondo, forme culturali, economie, nuclei di socialità, modelli di organizzazione del territorio che esprimono una originale specificità e che occorre rivalutare con attenzione.
È allora proprio su questa doppiezza, sui limiti che queste ferite hanno dettato ma forse anche sui potenziali cruciali dello sviluppo che in questo nucleo tragico si possono annidare, che occorre mettersi al lavoro per uscire dalla cultura del piagnisteo e dell’impotenza e trasformare questi scarti, questi “fantasmi che abitano” la storia e la cultura profonda di questo territorio da “potenze di morte” in fonti di produttività poetica, in occasioni di cambiamento, di movimento e di trasformazione.

Il pericolo da non correre è che il lavoro sulla memoria si trasformi però nel semplice recupero di belle immagini. Questa potrebbe essere davvero una operazione pericolosa. Le donne del Sud sapevano bene che l’immagine distaccata dalla vita può essere pericolosa.
Per questo non amavano farsi mai fotografare. Come ci racconta Corrado Alvaro Melusina, la protagonista di una sua storia, non amava farsi ritrarre: sapeva che la sua immagine privata dell’essere poteva essere fatta a pezzi e trattata come una merce.
Il rischio è quello di trasformare la complessità dei luoghi, “ricchi di natura e di storia”, in “immagini di luoghi”, simulacri separati dalla parola vivente, conservati e confezionati come semplici merci da vendere al miglior offerente da immettere nel grande circuito dei media.
I segni ed i paesaggi sedimentati in questi territori costituiscono l’espressione di un complesso ed inscindibile sistema di relazioni culturali, economiche e sociali. Considerarli come fatto a se stante, come documenti sostanzialmente estetici, semplici parvenze da contemplare nell’istante e senza fatica, dimenticando le relazioni da cui sono stati determinati, staccandone in un certo senso la “buccia dal frutto”, può diventare il miglior modo per distruggerne e degradarne il loro vero senso. Essi possono rischiare di trasformarsi in corpi senz’anime, in immagini spente come lo sguardo di un automa: cadaveri imbellettati, mummificati che il presente non anima più, non ispira più, in cui la stessa frigida e stanca bellezza di tutto ciò che viene conservato può solo fungere solo da anestetico ad una vita che non c’è più.
Per questo non possiamo limitarci costruire semplici “inventari dei beni culturali e dell’abitare”, da museificare, privandoli di ogni risorsa di senso: potremmo rischiare di compiere operazioni pericolose.
Questi luoghi potrebbero in questo modo rischiare di diventare una vetrina delle tradizioni e trasformarsi in una sorta di bancarella dove vendere merci esoticheggianti ad uso di un turista distratto.
Questa terra potrebbe essere assimilata, per usare una immagine tratta dal mondo pubblicitario, ad una sorta di “mulino bianco” in cui gli stessi oggetti, segni e musiche staccati dai corpi, dai mondi simbolici da cui sono stati prodotti, potrebbero di diventare semplici merci da vendere al miglior offerente. Forse sarebbe questo un modo per fare morire davvero questa terra.
È allora proprio perché questi luoghi sono il prodotto di una storia è solo dando continuità a questa storia, facendola vivere, che possiamo svilupparne il loro vero senso. Fermare la vita di questi territori significherebbe dargli la morte, astrarsi dalla mobilità del tempo, svuotare completamente il principio interno che ha dato vita alle sue stesse forme.
Occorre dunque che essi tornino ad essere prima di tutto espressione di produzione creativa. Bisogna andare oltre la pura accettazione del consumo visivo, che relega i luoghi ad immagine senza spessore, per ristabilire con le tracce sedimentate sul territorio un fecondo rapporto di interazione memoriale e creativa. Lavorare dunque in maniera progettuale per ritessere i frammenti, ridare senso ai materiali depositati dal tempo lungo il percorso, secondo diverse strategie ricombinative capaci di contaminare presente e passato, arcaicità e modernità, dentro e fuori, alla luce dei nuovi bisogni e delle attese che orientano verso il futuro, non ripetendo ciò che è stato, ma progettando eventi capaci di ripensare radicalmente il territorio all’interno delle nuove trame di senso che caratterizzano la nostra contemporaneità.

Lavorare tra locale e globale
Se è importante lavorare sulla memoria, tuttavia altrettanto importante è tenere conto delle relazioni che questi luoghi intrattengono con il mondo. Se il locale è il luogo da cui partire, non possiamo fermarci ad esso.
I processi di globalizzazione, le politiche economiche e sociali prodotte dall'Europa e dagli Stati hanno profondi riflessi su tutto il mezzogiorno: inducono processi, producono effetti  e viceversa. Locale e globale interagiscono in forme non univoche e complesse che contengono insieme rapporti di gerarchia e di pariteticità, difficili da imbrigliare in facili schematizzazioni. La dimensione del locale non può essere praticata come luogo separato.
Occorre dunque muoversi e “saltellare” fra diverse scalarità proprio perché la memoria acquisti senso, senza diventare chiusura autoreferenziale o rischiare di essere “spazzata via da un onda che viene dal mondo”; praticare in una sorta di rapporto coevolutivo, una conoscenza di sé e dell'altro.
Bisogna avere la consapevolezza di quello che sta avvenendo alle diverse scale, ai diversi livelli con cui queste terre interagiscono.
La costruzione del rapporto fra locale e globale è tutt'altro che semplice, costituisce per certi aspetti una sfida intrisa di dissidi e di conflitti. Mentre da un lato infatti la globalizzazione tende ad omogeneizzare, uniformare comportamenti, culture ed economie, dall'altra è proprio nel locale che essa si concretizza e si manifesta nelle sue forme anche più drammatiche ed appariscenti.
Noi tutti percepiamo oggi che i mondi locali sono oggi sempre più disorientati e smarriti: luoghi per certi aspetti tragici in cui si tocca con mano la vera e propria della fine di mondo, la scomparsa di culture così come di soggetti e di persone, di saperi, di uomini in carne ed ossa, ma sappiamo anche che è solo nel locale, nelle sue stesse pieghe più invisibili che spesso molecolarmente possono sorgere i segnali di un cambiamento possibile.

Occorre imparare a scrutare gli indizi per captare e comprendere le nuove energie che già esistono. Lavorare per far emergere, dare visibilità alle pratiche differenti, ai segnali deboli, alle qualità positive che già il territorio esprime: contribuire a valorizzare, amplificare, offrire opportunità a questi nuovi comportamenti, alle virtualità latenti, ai filoni fini di energia. Lavorare dunque per passaggi e consolidamenti, costruire “bacini di raccolta”, mettere in comunicazione i pensieri isolati per dargli forza, preparare reti che consentano alla progettualità microbica di coaugularsi e prendere forma. Solo così potrà davvero attivarsi e mettersi in moto l'intelligenza collettiva.
E’ solo questa intelligenza collettiva che potrà costruire luoghi nuovi.
Non credo che i Luoghi si costruiscano attraverso le opere degli architetti e degli urbanisti.

Io sono un urbanista-architetto, ma non credo sia questa la strada.

Una mamma sa…
Credo che i Luoghi si costruiscano quando tutte le persone, che vivono in un luogo, diventano partecipi della costruzione della realtà in cui abitano.
Non possiamo più delegare a nessuno la costruzione dei Luoghi in cui viviamo il nostro quotidiano.
Il lavoro di costruzione e di cura dei luoghi non può essere fatto dunque attraverso un progetto che una mente separata impone dall’esterno sulla carne viva del territorio, ma occorre lavorare per far germogliare da questa carne qualcosa di nuovo che abbia radici profonde.
Quello che occorre fare è un lavoro fine, più sottile, più femminile. Un lavoro, di giardinaggio, di tessitura, di raccordo, capace da un lato di far crescere e germogliare tutto ciò che gia esiste sul territorio e dall’altra di costruire reti e bacini di raccolta che consentano alla progettualità microbica, di coaugularsi e prendere forma.
Un lavoro dunque paziente e molecolare, più invisibile che visibile. In cui ciò che si richiede sono: l'umiltà e la pazienza di chi sa preparare il campo ed aspettare; la sensibilità e la cura di chi segue le proprie pianticelle e le alimenta giorno per giorno con la curiosità di vederle crescere, così come faceva il contadino attento alla cura del campo e della vita.
Ecco, io credo che il lavoro di chi si occupa di territorio e di luoghi debba essere pertanto assimilabile ad un lavoro di coltivazione e  di cura.
Come una madre sa infatti “che c’è vera speranza, purché vi si impegni costantemente, che il suo bambino diventi quel fenomeno infinitamente raro: una persona felice e grande”, comincio a pensare che la stessa idea di progetto debba  a questo punto essere immaginata più che come la realizzazione di una idea compiuta come l’avvio di un divenire, l’apertura di un cammino, la costruzione di un contesto trasformativo in cui dare la possibilità agli uomini e alle donne, che abitano in questi territori, di portare essi stessi a “fioritura l’unicità di quei contesti”.

Alcune immagini che rievocano la costruzione della Cattedrale.
Non ho nessuna nostalgia del passato, ma l’immagine del cantiere della cattedrale mi piace proprio perché mette in gioco l’idea di un progetto che si costruisce non attraverso un disegno interamente predeterminato, ma attraverso uno schema aperto che si sviluppa nel tempo attraverso l’intervento creativo di diversi soggetti che partecipano alla sua stessa costruzione.
La cattedrale non viene su senza progetto, non è frutto del caso, ma è piuttosto l’esito di una regia sapiente capace di coordinare nel tempo, in un opera che si sviluppa nell’azione, i diversi apporti creativi.
La sua costruzione è l’emblema di un modo diverso di intendere il progetto: non più forma interamente pensata al di fuori dal tempo, ma forma che si sviluppa nel tempo, e che emerge dal concatenamento delle relazioni fra tutti gli artefici coautori dell’opera.   
Questa idea di progetto non può più essere affidata alla semplice logica della previsione e del controllo ma richiede  l’uso di altre forme di razionalità.
Razionalità e saperi ben presenti nelle tradizioni culturali di questa terra.
Ho qui l'immagine di un ballo sardo, ma potrebbe essere anche l'immagine di una “tarantella”. In queste danze, veri e propri dispositivi di “costruzione collettiva”, tutti sono chiamati a partecipare direttamente alla sua costruzione e riuscita.
Nella tarantella i danzatori infatti non ripetono passivamente degli schemi dati ma sono chiamati a reinterpretare creativamente, con proprie variazioni immaginative, uno sfondo di regole da tutti condiviso e allo stesso tempo a costruire attraverso una fitta rete di sguardi, allusioni e gesti, un contesto relazionale in cui dialogare e accordarsi reciprocamente in maniera tale che mai uno possa avere il sopravvento sull’altro.
All’interno di una cornice, che costituisce una sorta di schema portante, ciascuno aggiunge proprie “interpretazioni personali” che contribuiscono a rendere viva e ad arricchire la versione iniziale della stessa danza.
È attraverso la mediazione estetica, che mette in gioco una ricerca di equilibri in continuo divenire, che viene risolta la stessa contraddizione fra tradizione e innovazione, tra libertà e regola, individualità e forma collettiva.
All’interno della danza i gesti dei diversi danzatori vengono coordinati dal maestro del ballo che, usando un’attenta sensibilità estetica, incita la creatività e la fantasia dei partecipanti, ma anche smorza l’eccessiva infrazione della regola e la trasgressiva libertà individuale.
In questo modo contribuisce delicatamente a far sì che i singoli gesti si accordino a poco a poco, si rispondano con infinite precauzioni, mediando tradizione e innovazione, regola e trasgressione, senza mai sconvolgere l’armonia e l’equilibrio del tutto.
Per continuare ad usare la tarantella come una sorta di possibile metafora dell’idea di progetto collettivo potremmo allora pensare che il ruolo del “maestro di ballo” possa essere in un certo qual senso svolto dalle stesse istituzioni.
Ad esse dovrebbe spettare il compito, nella costruzione di un progetto di cura e sviluppo locale, di dare inizio e di organizzare le danze, di costruire cornici, dispositivi aperti capaci di favorire il coinvolgimento, di creare gli spazi ed i supporti necessari perché la danza possa mettersi in moto. Ma anche mettere a punto un’attività di regia e di coordinamento capace di seguirne l’andamento, di favorire la partecipazione continua, di mantenere vivo e vitale il ballo incitando la creatività delle singole soggettività che vi partecipano, ma anche chiedendo il rispetto delle norme e delle regole che ne definiscono le basi del suo stesso funzionamento.



Lidia Decandia
dottore di ricerca  in Pianificazione Territoriale e Urbana, è professore associato presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Sassari, dove coordina il blocco Progettare nel Contesto Sociale e insegna Pianificazione territoriale e Storia della città e del territorio. E’ membro del Collegio di Dottorato di Tecnica Urbanistica del Dipartimento di Architettura e Urbanistica della Facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza di Roma e redattrice esterna della rivista CRU (Critica della razionalità urbanistica). Tra le sue opere: Tipicità ambientale e continuità urbana (in collaborazione con M. Coli e R. Bertini, Alinea, 1996); Riforma urbanistica e trasformazioni ambientali in Toscana (in collaborazione con M. Coli e R. Bertini, Alinea, 1998); Dell’identità. Saggio sui luoghi. Per una critica della razionalità urbanistica (Rubettino, 2000); Anime di luoghi (Franco Angeli, 2004). Ha curato in collaborazione con G. Attili e E. Scandurra, Storie di città. Verso un urbanistica del quotidiano, (Edizioni Intercultura, 2007)




Michele Santeramo
Autore teatrale. ha scritto e messo in scena, tra gli altri:
Murgia (Spettacolo Generazione Scenario 2003);
Konfine (selezione “Enzimi” 2003);
Accadueò (Premio “Le voci dell’anima” 2004);
Vico Angelo Custode (2005);
Nobili e Porci libri (2003).
Tutti gli spettacoli sono prodotti da teatro minimo, compagnia della quale fa parte insieme a Michele Sinisi e Antonella Papeo.

teatro minimo
Il gruppo si forma nel 2001, per iniziativa di Michele Sinisi che organizza e dirige un laboratorio con un gruppo di attori di cui fa parte anche Michele Santeramo.
Oggi, l’attività di teatro minimo ha trovato la collaborazione di numerosi attori coinvolti su singoli progetti, e di strutture con le quali stabilmente collabora.
Ha all’attivo oltre 250 repliche di spettacoli realizzate negli ultimi tre anni.